TERAMO – Ricucire la città con il suo passato: è questo l’appello che arriva ai candidati sindaco e a tutti coloro che si propongono per gestire la città di Teramo, dalla docente, storica dell’arte e scrittrice Marisa Profeta De Giorgio.
PUNTO E ACCAPO. Vademecum per i futuri reggitori della nostra città.
Gentile direttore, bisogna ammetterlo.
Da quando i movimenti artistici della seconda metà dell’Ottocento ad oggi, hanno deliberatamente rifiutato ogni forma, pittorica o plastica, che avesse diretto riferimento con l’esperienza sensibile, è diventata molto più complessa la decodificazione, e perciò la fruizione, dell’opera d’arte.
A ciò si aggiunga che alla modificazione del concetto stesso di arte, nel corso del tempo, hanno fatto riscontro settori ed eventi che in passato non rientravano nel campo dell’estetica e che hanno acquistato un nuovo diritto di cittadinanza, per cui non ci soccorrono più le tradizionali categorie di bellezza, proporzione, euritmia, sapienza nella distribuzione della luce, preziosità del colore, la scelta eletta dei materiali…
Secondo una definizione sconfortante dell’estetologo Dino Formaggio, condivisa da molti altri filosofi oggi «è arte tutto ciò che gli uomini chiamano arte. La parola che traduce il greco téchne di per sé indica solo il fare ma non specifica in che modo».
Intendi bene, dunque, come l’uomo contemporaneo si senta disorientato davanti a forme, a cui non sa riconoscere una chiave espressiva e come, perciò, abbia verso di esse crisi di rigetto.
È accaduto a noi, nel 2002, quando l’Amministrazione Comunale, non senza costruttiva volontà di aprire all’arte contemporanea la nostra Interamn(i)a Praetutianorum, finanziò l’allestimento di “Exempla 2”, sintesi delle tendenze artistiche nel ‘900, curata da B. Corà.
Opere di artisti eccellenti – Pistoletto, V. Messina, R. Ranaldi, G. Spagnuolo, P. Icaro, Bzahn Bessiri, iraniano, Hidetoshi Nagasawa, giapponese…. –, momenti distintivi e sintomatici della loro più ampia produzione, erano state pensate per intessere un dialogo con lo spazio urbano, ma, non capite, furono sentite come aliene, paracadutate arbitrariamente dall’alto.
Un flop. Delle numerose opere, poche sono sopravvissute agli insulti del tempo e degli uomini: “Senza titolo” di V. Messina è ancora nella Piazzetta del Sole, “Gran sassi” di P. Icaro, deportata a Montorio al Vomano, è associata a una rotonda spartitraffico, “Meteoriti” di B. Bassiri in Piazza Sant’Agostino. Infine “Naos” di D. Esposito ha trovato fortunosa e fortunata accoglienza negli spazi della sede universitaria come faro (?!? Di civiltà?)
Espressioni di poetiche diverse, di costellazioni artistiche talvolta anche lontane, inusuali, oggi come allora, come in un romanzo di Bruce Chatwin sembrano dire: che ci facciamo qui?
La recente esposizione al pubblico di ….. come chiamarlo? padiglione, pensilina, in Piazza San Matteo, ha rinfocolato le polemiche.
Non passa inosservato/a: un generoso dispiego di metallo lucente per una tettoia sostenuta da ben quindici elementi portanti, prevale sul colore caldo dei mattoncini di rivestimento dei palazzi circostanti. Decentrato, un grande oculo, forse un sofisticato gioco matematico/astronomico o forse un grande impluvium – ma non c’è a riscontro il displuvium – interrompe la superficie metallica, parcellizzata all’interno in riquadri.
Come la selciatura del Corso, che di per sé meriterebbe una trattazione, il suo progetto è scaturito dalla collaborazione sinergica di diciassette intelligenze tra progettisti, collaboratori e commissari; di questi ultimi, studiosi dell’Università di Madrid, di Calabria, di Roma e di Mantova…
Si potrebbe qui eccepire sul numero, sulla derivazione culturale e geografica degli addetti ai lavori e innescare quella antica “querelle” basata sulla opportunità di allogare i progetti di opere sul pubblico demanio ad esperti radicati nel territorio e che potrebbero meglio conoscere le esigenze utili – estetiche di noi indigeni, ma pratico filosoficamente l’epoché, cioè la sospensione di giudizio.
L’opera ha, gentile direttore, delle chiare tangenze con la “Tettoia” o “Padiglione” al Vecchio Porto di Marsiglia di Norman Foster, realizzata nel 2013: un cielo artificiale di 45×22 metri di acciaio inox duplex, sorretto da otto esili colonne, di diametro 273×25 mm., concepito per invertire il punto di vista dei visitatori, dando vita ad inedite prospettive. La studiosa L. Della Badia recensendo l’opera, evidenzia la sapiente capacità dell’autore di riuscire, a differenza del nostro caso, con il suo impatto minimale, ad includere gli spazi e l’acqua circostante del Porto riqualificato, creando un alchemico dialogo con il contesto.
Intelligenti pauca. Che dire? Che l’inserimento di segni contemporanei in tessuti storici esige un processo affinato e sensibile che, pur mantenendo a piazze e strade la loro fisionomia, le coinvolga nella tensione della modernità. L’interrogativo e la riflessione propedeutici dovrebbero essere di regola di segno sociologico: a che tipo di utenti ci si rivolge? Qual è la fisionomia della città in cui si opera?
Metodo indispensabile, perché il volto urbano di ciascuna città racchiude un messaggio sociale unico e un enorme valore collettivo. Esso ci dice che cosa erano i nostri antenati, dove e come abitavano, come pregavano, i loro usi domestici e sociali, le loro aspirazioni, le loro conquiste. Nella nostra Interamn(i)a si legge un glorioso passato romano, un Medio Evo, che allunga le sue propaggini fino a lambire l’Ottocento, un rinnovamento interpretato e voluto da spiriti illuminati quali Melchiorre Delfico e Vincenzo Cerulli, a cui rimasero estranee le masse popolari nel momento cruciale del passaggio dalla città episcopale alla città laica.
Un volto per tanti versi di un conformismo generalizzato, interrotto a cavallo tra l’800 e il ‘900 da un respiro di novità nelle ville floreali progettate da un architetto aprutino, Alfonso De Albentiis.
Il turista, che venga nella nostra città, si dirige nella parte antica: la Cattedrale con i suoi tesori d’arte, Sant’Anna de’ Pompetti e poco più in là, alla “domus” romana atrofizzata, purtroppo, in immobilità spettrale, dalla invadente ingabbiatura in acciaio, o a quel che resta di quel Teatro Romano di tutto rispetto, costruito in età augustea, nel corso della prima metà del I° secolo a.C., capace di ospitare da 3.000 a 4.500 spettatori.
A tutt’oggi attende una bonifica significativa realizzabile a patto che, sfruttando tecnologie sostituibili, quindi non permanentemente snaturanti, si dia una corretta rilettura, in cui il linguaggio contemporaneo si innesti come un efficace supporto al paesaggio monumentale.
In un’ottica costruttiva vale segnalare lo stato di degrado della Villa Comunale, appannaggio di pantegane, spacciatori di droga e tossicodipendenti. Restituirla a tutti e soprattutto a mamme e bambini significherebbe offrire una migliore vivibilità ambientale e sottrarli allo smog palpabile dei giardini di Viale Mazzini.
Diamo voce alla cultura, al suo luogo rappresentativo per eccellenza, la Biblioteca Delfico: dal 2014, decapitata e depauperata del suo personale specifico, rischia di non offrire servizi agli utenti.
E questo sì sarebbe un vulnus gravissimo per la città.
Facciamo tornare a vivere i tanti cadaveri edilizi disseminati nel nostro tessuto urbano, trasformandoli in spazi educativi per i giovani, confortevoli per gli anziani e utili, infine, ai tanti studenti fuori sede, iscritti nella nostra Università.
Rammendare, ricucire è il dictat operativo di Renzo Piano e rispettarlo sarebbe un ottimo segno di civiltà.
Come afferma Indro Montanelli in uno spot mai troppo abusato, la città che non valorizza il proprio ieri, non ha futuro.
Marisa Profeta De Giorgio